giovedì 31 maggio 2007

IL FONDAMENTALISMO DELLE DEMOCRAZIE

" Il fondamentalismo delle democrazie consiste nel credere che ciò che non è come loro è male". Così Gabriel G. Márquez in una frase che ha il merito di richiamare l’attenzione su un elemento costitutivo delle democrazie moderne, oggi impiegato scorrettamente insieme con termini come integralismo e fanatismo per connotare negativamente il mondo islamico. Cominciamo con un po’ di filologia per restituire ai concetti i loro significati originari. Il fondamentalismo è nato negli Stati Uniti , nel contesto del protestantesimo. Nel 1919 , dei pastori battisti e metodisti fondarono la World’s Christian Fundamentals Associations, con l’intento di rifiutare le teorie darwiniane sull’evoluzione a favore di un interpretazione letterale del creazionismo biblico. Il fondamentalismo protestante ha conquistato man mano notevoli favori negli Stati Uniti e, attualmente, esercita un peso molto rilevante sulla vita politica americana. Il termine integralismo, di origine spagnola, è apparso in Francia nel 1910 a designare una associazione religiosa , la Sodalitium Pianum, meglio conosciuta con il nome di Sapinière, poi sciolta dalla Santa Sede nel 1921. Richiamandosi all’Enciclica "Pascendi" di Pio X, gli integralisti (cattolici integrali) attaccano il modernismo e si proclamano amici della tradizione. Il concetto di fanatismo risale , invece, al XVII secolo e deriva etimologicamente da "fanum" , che significa tempio in latino e rimanda, dunque, ad una attitudine religiosa. Nel 1542, in Rabelais, il temine verrà associato a follia e, un secolo e mezzo più tardi, sarà impiegato per designare i camisards, i protestanti francesi protagonisti dell’insurrezione nelle Cévennes. Nel 1764, Voltaire, inorridito, registrerà la voce fanatismo nel suo "Dizionario filosofico". La crisi del razionalismo e della weltanschauung illuministica in genere che ha investito la nostra cultura negli ultimi anni, ci offre un appiglio prezioso per mettere in discussione la genesi della modernità come prodotto della "ragione" e dei "lumi" e ci permette, invece, di sottolinearne l’elemento fondativo mitico-religioso. Se teniamo presente che le due rivoluzioni inglesi del ‘600 e quella americana del secolo seguente si spiegano con il puritanesimo e che la rivoluzione per antonomasia, quella francese, affonda le sue radici nel movimento giansenista, "bigotteria pretesca" secondo Stirner, appare maggiormente comprensibile l’atteggiamento odierno degli occidentali nei confronti del mondo islamico. Figlio dell’Apocalisse, per usare un’espressione di Gobbi, nella sua variante liberale o marxista, il mondo occidentale non sa rinunciare alle sue radici e ad a ogni occasione accusa il nemico di essere il "male". Fino alla caduta del muro di Berlino, si trattava del comunismo; oggi si parla , invece, dell’islam. Ma i dogmi di riferimento non sono cambiati: democrazia, progresso e mercato, naturalmente ammantati di universalismo, in modo da giustificare la loro diffusione, anche violenta, presso i miscredenti. L’occidente rivela un volto, allora, che ricorda da vicino quello del terrorismo cattolico: delle crociate e della controriforma. Del resto, a suo tempo. Michel Foucault aveva messo in luce il rapporto organico che intercorre tra l’occidente moderno e la chiesa controriformata, tra il mondo che si chiama "libero" e le pratiche repressive degli avversari del demonio. Così come aveva magistralmente illustrato un’"altra" genealogia della modernità, quella dell’universo carcerario, in cui la prigione, il manicomio e l’ospedale apparivano parenti paurosamente stretti. E proprio a Foucault ed al suo "Taccuino persiano" appare utile fare riferimento per cercare di interpretare l’attuale scontro delle civiltà. Il titolo del libro richiama le "Lettere persiane" di Montesquieu, ma non si tratta né di illuminismo né di relativismo:con il primo, Foucault intrattiene un rapporto complesso ed ambiguo, fatto insieme di rifiuto e di recupero in direzione di una ontologia dell’attualità: "Lasciamo alla loro pietà coloro i quali vogliono conservare viva e intatta l’eredità dell’aufklärung. Questa pietà è certamente il più commovente dei tradimenti". Quanto al secondo, esso appare un falso problema: "La visione del mondo di Foucault era una visione da guerriero…L’idea di un relativismo culturale riposa su un presupposto, secondo cui all’eternità non si oppone l’attualità ma il tempo che scorre. Ma che cosa conta il relativo? Mai un guerriero è stato scosso, nel suo patriottismo, dall’idea che il suo cuore batterebbe per il campo nemico, se fosse nato dall’altra parte della frontiera". Nel vivo della sollevazione iraniana contro lo scià, che avrebbe condotto al governo l’ayatollah Khomeini, Foucault ha modo di verificare sul campo la validità della sua microfisica del potere ma, anche, di confrontarsi direttamente con un pensiero "altro" da quello occidentale, di cui sa cogliere lucidamente la straordinaria portata politica per l’immediato futuro.Non solo Foucault scorge nell’islam "una gigantesca polveriera, formata da centinaia di milioni di uomini ", ma si rende anche perfettamente conto dell’impossibilità di impiegare le categorie politiche impiegate dal pensiero politico europeo per interpretare la realtà del mondo islamico: "La modernizzazione, come progetto politico e come principio di trasformazione sociale, è nelIraq una cosa del passato",oppure, riguardo al senso della morte e, quindi, della vita: "Sapevo ciò che mi avrebbe risposto: ‘Quello che preoccupa voi occidentali, è la morte, le chiedete di staccarvi dalla vita, essa vi insegna la rinuncia. Noi invece ci preoccupiamo dei morti, perché essi ci fissano alla vita, noi tendiamo loro la mano affinché ci leghino al dovere della giustizia permanente. Essi ci parlano del diritto e della lotta che lo fa trionfare’", e, infine, "non è una rivoluzione, nel senso letterale del termine… è forse la prima grande insurrezione contro i sistemi planetari, la forma più folle e più moderna di rivolta". La preferenza accordata a termini come insurrezione e rivolta piuttosto che alla categoria di rivoluzione, può far pensare ad un richiamo polemico a Stirner contro la tradizione marxista; nel qual caso sarebbe utile ricordare le considerazioni di Furio Jesi: "Nel fenomeno dell’insurrezione spontanea sono presenti anche numerose componenti di ribellione nate dalle singole frustrazioni ‘private’, estranee al quadro della coscienza e della lotta di classe", e in modo ancora più illuminante: "La rivolta esclude la provvidenza – o la provvida fatalità, o la provvida conseguenza delle ferree leggi economiche - , così come essa non prepara il domani. Ma che cosa è l’epifania del ‘dopodomani ‘ di Nietzsche se non la conferma della essenziale inattualità della rivolta? La rivoluzione prepara il futuro, la rivolta evoca il futuro". In ogni caso Foucault si sforza di leggere, per così dire con un approccio di tipo ‘antropologico’, la tradizione islamica secondo i proprï principï, senza sovrapporre ad essa deformazioni di carattere eurocentrico tipiche della dell’apparato ermeneutico marxista o progressista in genere. È una lezione di grande forza ed attualità, tanto più se confrontata con l’insulso vociare di giornalisti ed intellettuali che quotidianamente incensano la globalizzazione come missione di civiltà. Una delle rare voci fuori dal coro, quella di Jean Baudrillard, ci ricorda che esistono dei modelli refrattari all’occidentalizzazione del mondo di cui l’islam è il più manifesto e che il fronte della quarta guerra mondiale, dopo la terza che è già avvenuta., la guerra fredda, passa tra questi antagonismi. La posta in gioco, naturalmente, è la mondializzazione. Lo scenario geopolitico internazionale si presenta, quindi, in maniera estremamente semplificato: da una parte i ‘partigiani’ della globalizzazione, inclusa la Cina dopo l’entrata ne WTO; dall’altra il mondo islamico, cioè a dire l’unico autentico attuale movimento no – global. Questa situazione ha fatto anche sì che sia venuta meno la tradizionale distinzione tra destra e sinistra, accomunate, oggi, nella difesa dei valori dell’occidente che non vuole tramontare. Così, non solo gli intellettuali organici à la Habermas o à la Popper si trovano smarriti scoprendo le loro posizioni interscambiabili, ma anche quelli che tengono alto il vessillo dell’opposizione, come Marcello Cini, tradiscono un certo disagio nel dover ammettere il fallimento della sinistra come alternativa al sistema capitalistico: "È chiaro che voto a sinistra, ma nessun partito mi attira particolarmente", ciononostante: "Mettere sullo stesso piano la falce e il martello – simboli del lavoro e della vita – delle bandiere rosse dei lavoratori, e i teschi – simboli della violenza e della morte – sui gagliardetti neri delle SS e delle squadracce fasciste è dunque non solo storicamente assurdo, ma ignobilmente strumentale". Dopo aver sottolineato l’inadeguatezza dello schema marxiano del passaggio dal capitalismo al comunismo presente nei ‘Grundrisse’, secondo cui "è lo sviluppo impetuoso della scienza e della tecnologia… che scalza le basi del processo di crescita del capitalismo", Cini non rinuncia ad individuare "un metasoggetto formato da soggetti diversi decisi a difendere la propria identità minacciata dal processo di omologazione"; naturalmente il metasoggetto non è l’islam. Chi continua a credere, invece, nella potenzialità rivoluzionaria dei ‘Grundrisse’, è Antonio Negri che, nel suo ultimo libro, ‘Impero’, scritto a quattro mani con Michael Hardt ed accolto entusiasticamente, tra gli altri, dal ‘Time’, arriva a sostenere: "Quello che Marx vedeva nel futuro non è altro che il nostro tempo", e in modo ancora più spensierato: "Nelle espressioni della sua potenza creativa, il lavoro immateriale sembra esprimere virtualmente un comunismo spontaneo ed elementare". Da questo punto di vista, l’islam rappresenta un ostacolo ‘regressivo’ alla deterritorializzazione operata dall’’Impero’ e viene ridotto alla categoria vuota del fondamentalismo: "Quello che, senza dubbio, unisce i fondamentalismi è la loro strenua opposizione alla modernità e alla modernizzazione…in tal senso, il fondamentalismo islamico costituisce il caso paradigmatico". La proposta alternativa dei Nostri consiste nel recuperare Agostino di Ippona e, in suo nome, riconoscere che: "Solo una comunità universale e cattolica che riunisca tutti i popoli e tutte le lingue in un viaggio comune può raggiungere lo scopo". Amen. Si tratta, in questi autori, di un sostanziale fraintendimento del processo di americanizzazione che ha investito i paesi europei dopo la seconda guerra mondiale, interpretato unilateralmente come emancipazione. A questo riguardo aveva visto meglio Pasolini che, pur nei limiti della sua mitizzazione populistica delle culture alternative, coglieva correttamente la ‘mutazione antropologica’ conseguente al processo di omologazione culturale degli anni del dopoguerra. Naturalmente, la forza della denuncia pasoliniana era stemperata dal fatto stesso di essere lanciata dalle colonne di un giornale espressione dell’ideologia dominante come il "Corriere dela sera". Il discorso dell’occidente sull’occidente sembra, così, chiudersi su sé stesso a meno di riconoscere "la legittimità del richiamo al mondo culturale, alle antiche lingue del vicino oriente, all’accadico, al sumero, per far luce sulle origini della civiltà del nostro continente… ciò che sappiamo di quei popoli del vicino oriente che crearono la prima grande civiltà come conquista perenne anche per l’occidente noi possiamo leggerlo negli scritti che sono giunti sino a noi". Occorre, in altre parole, che l’occidente rinunci alle sue pretese egemoniche a partire dal linguaggio, che ha fatto supporre l’esistenza dell’indoeuropeo come madre di tutte le lingue rivelatosi una favola. Mentre il ricorso "all’accadico, come lingua antichissima di più larga documentazione, dispensa talora dal ricorso a lingue affini e sostituisce il rituale richiamo all’indoeuropeo congetturale dei manuali, storicamente inesistente". Giova forse ricordare che la civiltà mesopotamica di cui ci parla con tanto calore Semerano,coincide geograficamente con Iraq odierno, quello che i fondamentalisti occidentali, Bush in testa, si preparano distruggere. Mi piace concludere queste brevi riflessioni citando un grande scrittore giapponese: "Ma perché poi piace tanto, a noi orientali, la bellezza che nasce dall’ombra?… Gli occidentali conferiscono, persino ai fantasmi, la trasparenza del vetro… Gli occidentali amano ciò che brilla , come per luce diurna…Quale l’origine di gusti tanto dissimili? V’è, forse, in noi orientali, un’inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze, della vita.Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, e senza repulsione. Al contrario, l’occidentale crede nel progresso, e vuol mutare di stato. È passato dalla candela al petrolio, dal petrolio al gas, dal gas all’elettricità, inseguendo una chiarità che snidasse sin l’ultima parcella d’ombra".
Bruno Bonansea
Saluzzo, Gennaio 2003
ESTETICA DELLA SPARIZIONE: UN’ETICA PER LA SOCIETA’ DELLO SPETTACOLO
I nostri eroi si sono uccisi, o s’uccidono
(Henry Miller)
Il mio capolavoro è il silenzio
(Marcel Duchamp)



Esiste una segreta convergenza tra alcune grandi anime del Novecento quali Fuocault, Deleuze, Debord e Mishima, che può essere illuminata a partire dalla nozione di ‘estetica della sparizione’. Intesa, quest’ultima, non nell’accezione originaria attribuitale da Virilio[1], bensì nel duplice significato di un “lavoro di sé su sé “ che consiste nel “dare senso e bellezza alla morte, estetizzare la cancellazione di sé”[2]e, anche, nel senso di una ‘fuga’ dalla società dello spettacolo integrato[3]che risulti essere l’esatto contrario della resa:”Fuggire, ma fuggendo, cercare un’arma”[4], sapendo che “gli artefici dei naufragi scrivono il loro nome soltanto sull’acqua”[5]. Una vera e propria “estetica dell’esistenza”[6], dunque, che è anche un’estetica della sparizione, già tratteggiata, nelle sue linee essenziali, negli ultimi due libri pubblicati da Michel Foucault , nel 1984, poco prima della morte prematura. Questa estetica dell’esistenza, come spiega Paul Veyne, va concepita dal punto di vista dei Greci, “per i quali l’artista era in primo luogo un artigiano e l’opera d’arte – un’opera”[7]; solo in questo modo , “l’io, assumendo sé stesso come opera da compiere, potrà sopportare una morale che né la ragione né la natura né la tradizione sopportano più”[8], fino a diventare “artista di sé stesso”[9]secondo lo schema dannunziano de “Il piacere”, in cui il padre di Andrea Sperelli enuncia così il suo credo:”Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte…La superiorità vera è tutta qui””[10]. Detto con le parole di Foucault:”L’individuo si realizza come soggetto morale nella plastica di un comportamento perfettamente misurato, ben visibile a tutti e degno di duratura memoria”[11]. Questo atteggiamento estetico non esclude ma, anzi, implica “una visione da guerriero, per il quale non esistono che dei partiti presi, il proprio e quello dell’avversario, e che non pensa a darsene ragione: gli basta aver fatto la sua scelta”[12]. Lo stile, si può dire, diventa principio di individuazione, al punto che:”Un vero guerriero non conosce l’indignazione, ma conosce la collera, il thymos; non si cura di fondare la sua verità, gli basta volerla e farla trionfare; ma non si abbassa a cavillare…Tra l’indignazione e la collera non c’è una semplice sfumatura, ma un vero abisso metafisico”[13]. Da buon nietzscheano, Foucault sapeva che “la profonda sofferenza rende nobili; essa divide”[14]; ma come fare di questa esperienza un’arma? Come trasformarla in un punto di forza? Come dice Deleuze, “si tratta di concepire la morte, e sono pochi gli uomini che come Foucault sono morti nel modo in cui la concepivano”[15]. Ma lasciamo ancora la parola a Veyne:”Da diversi anni, Foucault aveva riflettuto molto sul sicidio…Diceva di non aver paura della morte e non se ne vantava. Solo la malattia e un’improvvisa perdita di coscienza gliene hanno tolto l’occasione…Il lavoro di sé su sé è consistito per lui nel mettere le proprie teorie alla prova su sé stesso, nel vivere la sua filosofia e nel compenetrarsene, come voleva la saggezza antica”[16]. Anche Mishima è stato un guerriero; “penso che alla fine penna e spada non possano essere divise”[17], ebbe a dichiarare in una intervista rilasciata poco tempo prima del tragico gesto con cui si sarebbe tolto la vita seguendo il rituale giapponese del seppuku. E un guerriero, vale la pena ricordarlo, è l’esatto contrario del soldato: non riceve ordini da alcuna autorità costituita, sia essa di carattere immanente o trascendente, lo spazio entro cui si muove è quello dello scontro puro; da ciò deriva “il fascino del samurai, guerriero in un mondo di soldati…Il guerriero non prova odio né amore per il suo avversario, ma ferendolo si trasforma in lui, e l’arma, prolungamento della sua persona, è il tramite della metamorfosi”[18]. Il duello e la spada diventano il tramite per il superamento di un’individualità che sentiamo come costrizione durante tutta l’esistenza e che neghiamo simbolicamente attraverso l’erotismo, la droga, l’ebbrezza o l’estasi[19], rimandando indefinitamente l’atto di violenza assoluto”che ci sottrae definitivamente alla discontinuità del singolo consegnandoci alla continuità senza limiti, per la nostra coscienza, della morte”[20]. Qualsiasi cosa sia stata scritta a proposito del suicidio di Mishima, appare infondata[21], così come si rivela infondato il tentativo di bollare la sua opera con il marchio, superficiale e non meglio precisato, di ‘cultura di destra’. La prospettiva cambia se solo si richiamano alcune riflessioni di Baudrillard sul lavoro, il potere e la morte[22], che possono restituire al gesto ed alle parole di Mishima il loro significato autentico. Secondo Baudrillard, “il lavoro si oppone come una morte lenta alla morte violenta…La sola alternativa al lavoro non è il tempo libero o il non – lavoro: è il sacrificio”[23]; commentando acutamente la dialettica hegeliana del padrone e dello schiavo, Baudrillard mostra come il potere non sia altro che il potere di lasciare in vita, una vita da consumarsi nel lavoro: “Il padrone confisca la morte dell’altro, e conserva il diritto di rischiare la propria”[24]. Se il potere è una struttura di morte, “morte differita, non sarà eliminato finchè non sarà eliminata la sospensione di questa morte”[25]. Ecco che allora il gesto di Mishima acquista una nuova luce e rivela tutta la sua portata rivoluzionaria[26]: se conservando la vita non si abolirà mai il potere, “solo la resa di questa vita…costituisce una risposta radicale, e l’unica possibilità di abolire il potere”[27]. Tradotto in termini hegeliani, cesserò di essere uno schiavo se avrò il coraggio di rischiare la vita e, al limite, di perderla. Come fa ancora osservare Baudrillard con parole che rappresentano il miglior commento possibile della scelta di Mishima, di fronte ad un potere che “dona sempre di più , per meglio asservire”, “gli individui possono giungere fino alla propria distruzione per mettervi fine. E’ la sola arma assoluta…Ed è perché viviamo della morte lenta che sogniamo la morte violenta. Questo stesso sogno è insopportabile al potere”[28].Letto nell’ottica di Baudrillard, l’atto estremo di Mishima appare come l’incarnazione più pura dell’estetica della sparizione: si sottrae al potere il monopolio della morte violenta per affermare la propria volontà auto – etero – distruttrice; ma non solo: tale atto rivela profonde venature stoiche[29]. Mishima stesso, leggendo e commentando lo Hagakure, il libro dei samurai che sostenne la sua solitudine ed il suo atteggiamento anacronistico[30], riconosce i legami con la filosofia stoica: “In questa filosofia di morte si cela senz’altro lo stoicismo epicureo”[31]. Ed è difficile non vedere qui un’affinità elettiva tra Mishima sprofondato nella meditazione dello Hagakure e Foucault estasiato di fronte alla ‘superbia’ delle Lettere di Seneca[32]. Ma bisogna anche dire che Mishima è stoico nel senso così bene illustrato da Deleuze: quello della contro – effettuazione, in cui si diventa il “ commediante dei proprï eventi”[33]. E’ a questo livello che si condensa il paradosso stoico “ di affermare il destino, ma di negare la necessità”[34]e si chiarisce che cosa significhi , stoicamente, volere l’evento: “liberarne l’eterna verità, come il fuoco che lo alimenta, tale volere raggiunge il punto in cui la guerra è condotta contro la guerra, la ferita tracciata vivente , come la cicatrice di tutte le ferite, la morte rovesciata voluta contro tutte le morti”[35]. Come dice ancora, in modo impareggiabile, Deleuze: “Che vi sia in ogni evento la mia infelicità, ma anche uno splendore e un bagliore che asciuga l’infelicità e fa sì che l’evento, voluto, si effettui sulla sua punta più stretta, sulla lama di un’operazione…Diventare degni di ciò che ci accade”[36]. Se ogni evento è sempre doppio e se in esso c’è sempre una parte incompiuta che eccede la sua realizzazione, allora c’è anche sempre lo spazio per la contro – effettuazione, ed è per questo che “dobbiamo doppiare questa effettuazione dolorosa con una contro – effettuazione che la limita. Bisogna accompagnarsi da sé, innanzitutto per sopravvivere, ma anche quando si muore”[37]. Anche nel suicidio di Mishima, dunque, si deve cogliere la doppia valenza dell’evento: da una parte, l’effettuazione tremenda con la ferita mortale inferta in modo irreparabile al proprio corpo, dall’altra la contro – effettuazione per cui questa stessa ferita diventa, come si è detto citando Deleuze, “la cicatrice di tutte le ferite” e la morte voluta libera la parte pura dell’evento , conservandone “soltanto il contorno o lo splendore”[38]. E’ così che si tocca “ il punto in cui la morte si rivolge contro la morte”[39] e si può, con Joe Bousquet, “attribuire alle pesti, alle tirannidi, alle guerre più spaventose la fortuna comica di aver regnato per nulla”[40]. Si deve a Gilles Deleuze la formulazione di una nuova immagine del pensiero[41]che rappresenta una vera e propria estetica della sparizione, “diventare impercettibile, fare rizoma e non mettere radici”[42], profondamente ispirata dalla filosofia stoica: “Un amore per la vita che può dire di sì alla morte. Tale è il passo propriamente stoico”[43]. Si può dire che tutta l’opera di Deleuze fosse mossa dalla preoccupazione o, meglio, dall’’ossessione’ di non scrivere nulla che non apparisse profondamente vitalista: “ Nell’atto di scrivere c’è il tentativo di fare della vita qualcosa di più che un fatto personale, di liberare la vita da ciò che la imprigiona. L’artista o il filosofo hanno spesso una salute fragile, un organismo debole, un equilibrio malfermo…Ma non è la morte che li spezza, è bensì l’eccesso di vita che hanno vissuto, provato, pensato”[44]. La scrittura svolge, rispetto alla vita, lo stesso ruolo che svolge la contro – effettuazione nei confronti dell’evento: si tratta sempre, nell’uno e nell’altro caso, di liberarne la parte immacolata. E anche nel suicidio di Deleuze non è la morte che ha spezzato il filosofo, ma un eccesso di vita: “ Solo gli organismi muoiono, mai la vita”[45]. Se ne dovrebbero ricordare quelle creature del risentimento che alla morte di Deleuze gioirono meschinamente per la misera fine del filosofo che aveva esaltato la vita. La bassezza d’animo non è degna di memoria, e costoro non faranno eccezione: “ La bassezza è sempre legata al proprio tempo, all’impeto del presente, all’attualità in cui si incarna e agisce; questo…spiega perché il filosofo vada sempre contro il proprio tempo”[46]. Il grande filosofo è inseparabile, secondo Deleuze, dal grande stile: “ C’è stile quando le parole producono un lampo che va dalle une alle altre, anche lontanissime”[47]. Grande filosofia e grande stile sono le condizioni trascendentali affinché si possa cogliere la natura dell’evento, “ il solo concetto filosofico capace di destituire il verbo essere e l’attributo”[48]; per questo Deleuze può dire che “ l’individuazione non è necessariamente personale”[49]e parlare di ‘ecceità’ riprendendo la terminologia medioevale di Duns Scoto”[50]. Cogliere l’evento significa anche prendere le distanze dalla società dello spettacolo e dai media che “ cercano qualcosa di spettacolare, mentre l’evento è inseparabile dai tempi morti…il più comune degli eventi fa di noi un veggente, mentre i media ci trasformano in semplici spettatori passivi, al massimo in voyeur”[51]. E’ un tema, questo, che avvicina sensibilmente Deleuze a Debord, così come la questione del ‘divenire impercettibile’: “ Sento che si avvicina il tempo di una clandestinità per metà volontaria e per metà coatta, che sarà il desiderio più nuovo – anche politico”[52]; siamo vicinissimi a quella forma paradossale di estetica della sparizione che in Debord assume i contorni dell’iconoclastia[53], “ con la precisa intenzione di nuocere alla società spettacolare”[54]. Ma c’è ancora un altro motivo,tipicamente deleuziano, che consuona con la filosofia di Debord; quello del nomadismo, inteso come ‘controfilosofia’ e ‘macchina da guerra’:“ Il nomade, tuttavia, non per forza è qualcuno che si muove: esistono anche viaggi sul posto, viaggi in intensità, e persino sotto il profilo storico i nomadi non sono tanto coloro che emigrano di continuo, quanto coloro che non si muovono, che fanno opera di nomadismo restando sul posto, senza farsi inghiottire dai codici”[55].Queste parole rappresentano già una risposta ai problemi che pone, secondo Debord, un mondo globalizzato, “ falsificato e garantito spettacolarmente”[56]; se, infatti, “ in un mondo unificato , non ci si può più esiliare”[57], si possono sempre compiere dei viaggi in intensità, come dice Deleuze, dei viaggi sul posto che sono la contro – effettuazione del ‘movimento’ voluto dal sistema, finalizzato a ridurre i suoi lacchè a “ salariati poveri che si credono proprietari, ignoranti mistificati che si credono istruiti e morti che credono di votare”[58]. Si è potuto parlare, a proposito di Debord, di “un’estetica della sconfitta, quasi che ogni successo contenga un elemento di insopprimibile volgarità”[59]. E’ giusto, a patto che si consideri questa estetica della sconfitta come parte integrante di una più vasta strategia finalizzata a combattere la società spettacolare, che ha costretto Debord a condurre “ un’esistenza oscura e inafferrabile”[60]. Le dichiarazioni di Debord a questo proposito sono perentorie: “ Si sa che questa società firma una sorta di pace con i suoi nemici più dichiarati, quando attribuisce loro un posto nel suo spettacolo. Ma giustamente io sono il solo, di questi tempi, ad avere una certa fama clandestina e cattiva, che non si sia riusciti a fare apparire su quella scena della rinuncia”[61]; “ sono stato naturalmente io a rifiutare, in tutti i modi possibili, di acconsentire a riconoscere l’esistenza di questa gente che cominciava, pera così dire, a riconoscere qualcosa della mia…Quanto alla società, i miei gusti e le mie idee non sono cambiati, restando perfettamente opposti a quello che era come a tutto ciò che annunciava di voler diventare”[62], e non possono, certamente, essere ridotte ad una qualche forma compiaciuta di rinuncia. E’ piuttosto il nietzscheano ‘pathos della distanza’ ad animare il discorso di Debord ed a fare di lui “ la personificazione del ‘grande stile’”[63]: “La mia cerchia è stata composta solo da quelli che sono venuti da sé, e hanno saputo farsi accettare. Non so se esista un altro che abbia osato comportarsi come me, in questa epoca. . Bisogna anche riconoscere che la degradazione di tutte le condizioni esistenti è appunto apparsa allo stesso momento, come per dare ragione alla mia follia singolare”[64]. Ma a fianco di questo Debord, sobriamente impegnato nel sabotaggio della società spettacolare, ne esiste un altro, un suo ‘doppio’, che come a confermare le parole di Deleuze: “Tutto ciò che fu buono e grande nell’umanità entra ed esce da essa in gente pronta a distruggersi da sé”[65], si dedica al proprio annientamento attraverso l’abuso di bevande alcooliche: “ Fra il piccolo numero di cose che mi sono piaciute, e che ho saputo ben fare, bere è senza dubbio quella che ho saputo fare meglio. Sebbene abbia molto letto, ho bevuto di più. Ho scritto molto meno della maggior parte di quelli che scrivono; ma ho bevuto molto più della maggior parte di quelli che bevono”[66]. E ancora, con stupita incredulità sorretta da una punta di orgoglio: “ Trent’anni,e più, sono trascorsi senza che mai un malcontento citasse il mio amore per la bottiglia come un argomento, almeno implicito, contro le mie idee scandalose…Non ho mai pensato un istante di celare questo lato forse contestabile della mia personalità, ed esso è stato chiaro per tutti coloro che mi hanno incontrato più di una volta o due”[67]. Le vie del vino sono infinite e ci si può anche perdere; Debord lo sapeva: “ Ho amato dapprima, come tutti, l’effetto della leggera ebbrezza, poi molto presto ho amato quel che è al di là della violenta ebbrezza, quando si è oltrepassato questo stadio: una pace magnifica e terribile, il vero gusto del passaggio del tempo”[68]. E’ ancora Deleuze che chiarisce il fenomeno della percezione del tempo nell’alcoolismo: “ L’alcoolismo non appare come la ricerca di un piacere, bensì di un effetto. Tale effetto consiste principalmente in ciò: uno straordinario indurimento del presente”[69], una dilatazione del presente che costituisce una presa di distanza dal passato e dal futuro, un vero e proprio “ effetto di fuga”[70]non privo di conseguenze imbarazzanti: “ Avrei avuto ben poche malattie, se l’alcool non me ne avesse alla lunga procurata qualcuna: dall’insonnia alle vertigini, passando per la gotta…Vi sono mattini commoventi ma difficili”[71]Comunque, anche in Debord, alla fine “ prevale l’atteggiamento stoico di accettazione del presente e del passato”[72], una sorta di autosufficienza nei confronti del mondo: “Il leopardo muore con le sue macchie, e io non mi sono mai proposto, né mi sono creduto capace, di migliorarmi”[73]. Nella società dello spettacolo, come Debord ben sapeva, qualsiasi azione che non sia improntata ad un’estetica della sparizione, è vana: “ Bisogna dunque ammettere che non c’erano né successo né fallimento per Guy Debord e per le sue pretese smisurate…Per me non ci sarà né ritorno né riconciliazione. La saggezza non arriverà mai”[74]. Come si è cercato di mettere in luce nelle pagine precedenti, l’estetica della sparizione è fondata sia sulla ripresa di alcuni motivi di derivazione stoica sia su una visione tragica dell’esistenza sostanzialmente riconducibile alla filosofia di Nietzsche. Proprio Mishima, l’unico tra gli autori presi in considerazione il cui rapporto con Nietzsche non sia esplicito, ha confermato tale legame: “ A proposito però del mio rapporto con Nietzsche, dei suoi scritti quello che preferisco è La nascita della tragedia. Non ho trovato altra opera più piacevole e vibrante. Penso di averne subito inconsapevolmente una grandissima influenza.”[75]. Il tragico, non a caso, è il vero nodo irrisolto del pensiero di Nietzsche, e getta una luce sinistra su tutta l’opera del filosofo tedesco: “ La danza infinitamente gioiosa di Dioniso è, anche e soprattutto, una danza di morte: lo è negli scritti giovanili pubblicati postumi, e lo è negli ultimi frammenti e nelle ultime lettere”[76], ed è anche l’aspetto meno presente nella versione edulcorata che di esso viene diffusa attraverso il ‘pensiero debole’[77], non per niente impegnato a rimuovere il lato più inquietante della filosofia di Nietzsche, quello che liquida in un sol colpo scienza e democrazia, ritenute responsabili della fine della tragedia e dell’inizio della decadenza europea[78]. L’estetica della sparizione, contrariamente al ‘pensiero debole’, implica un’etica che come tale è fornita di un suo imperativo categorico: agisci in modo da non alimentare mai l’”immensa accumulazione di spettacoli”[79]che informa la vita delle società dominate dalle moderne condizioni di produzione. L’estetica della sparizione, del resto, con tutta la densità semantica attribuita sin qui al verbo sparire, rappresenta l’unico imperativo categorico proponibile in una società dominata dal feticismo dell’immagine nonché la possibilità, forse, di sfuggire a quella ‘metafisica della presenza’ che,secondo Heidegger,[80]ha segnato il destino dell’Occidente a partire da Platone fino alla Tecnica planetaria dei giorni nostri.
Bruno Bonansea Luglio 2003

[1] cfr. P. Virilio, Estetica della sparizione, Liguori Editore, Napoli, 1992; per Virilio l’estetica della sparizione descrive l’attuale derealizzazione dell’esperienza derivante dall’alienazione tecnologica.
[2] P. Veyne, E’ possibile una morale per Foucault?, aut aut, n° 208, 1985, pag. 54
[3] cfr. G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Baldini & Castoldi,Milano, 1997, pag. 194
[4] G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, Feltrinelli, Milano, 1980, pag. 159
[5] G. Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, Oscar Mondadori, Milano, 1998, pag. 48
[6] M. Foucault, L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano, 1984, pag. 93
[7] P. Veyne, cit., pag. 51
[8] P. Veyne, cit., pag. 52
[9] P. Veyne, cit., pag. 52
[10] G. D’Annunzio, Il piacere, Libro primo, cap. II, in AA.VV. La scrittura e l’interpretazione, Palumbo Editori, Palermo, 2001, vol. III, pag. 523. L’accostamento a D’Annunzio può suscitare perplessità solo presso quanti non considerino gli esiti apertamente nichilistici dell’opera del poeta pescarese; a questo proposito, basti richiamare i versi conclusivi della poesia “Qui giacciono i miei cani”: Ogni uomo nella culla / succia e sbava il suo dito / ogni uomo seppellito / è il cane del suo nulla ; in G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, vol. I, in AA.VV. cit., pag. 515
[11] M. Foucault, cit., pag. 95
[12] P. Veyne, cit., pag. 48
[13] P. Veyne, cit., pag. 50
[14] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Arnoldo Mondatori Editore, 1981, pag. 174
[15] G. Deleuze, Foucault, Feltrinelli, Milano, 1987, pag. 97
[16] P. Veyne, cit., pag. 54
[17] Furubayashi T., Kobayashi H., Le ultime parole di Mishima, Feltrinelli, Milano, 2001, pag. 33
[18] F. Saba Sardi, introduzione a Mishima Y., La via del samurai, Bompiani, Milano, 1987, pag., 16
[19] cfr. F. Saba Sardi, cit., pag. 14
[20] F. Saba Sardi, cit., pag. 14. Una simile concezione del duello come momento euristico assoluto che, attraverso l’istante della lacerazione ci consegna all’’Altro’ nello stesso tempo in cui lo possediamo, è rinvenibile nel combattimento fra Tancredi e Clorinda ne “La Gerusalemme liberata” del Tasso. Cfr. T. Tasso, La Gerusalemme liberata, XII, 52 – 70, in AA.VV. cit., vol. I, pagg. 127 – 132. Sulla pienezza originaria (perduta) dell’essere, sull’eros e sull’istinto di morte, è doveroso richiamare le osservazioni magistrali di Colli riguardo al mito dell’androgino: “La natura arcaica degli uomini primordiali era piena, forte e tracotante, secondo Aristofane: la loro unità viene spezzata, il loro corpo rotondo è diviso in due metà da Zeus, che difende la sua potenza. L’eros è nostalgia di quella pienezza perduta, è il desiderio…del fondo metafisico che sta dietro la nostra vita, da cui questa zampilla… L’eros esprime l’inadeguatezza, l’impotenza dell’uomo spezzato, l’impulso a spegnere l’individuazione. Istinto di morte, però, se quella che possediamo oggi è vita, ma piuttosto di vita, se quello che siamo è scadimento, frammentazione, insufficienza, insomma morte, secondo l’insegnamento dionisiaco ed eleusino”; G. Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, 1981, pagg. 73 - 74
[21] cfr. F. Saba Sardi, cit., pag. 10
[22] cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Felrinelli, Milano, 1990, pagg. 54 - 60
[23] J. Baudrillard, cit., pag. 55
[24] J. Baudrillard, cit., pag. 56
[25] J. Baudrillard, cit., pag. 56
[26] Del resto, è lo stesso Mishima a dichiarare la sua affinità con il comitato di lotta universitaria zenkyōtō: “Capivo che la loro idea di democrazia diretta e la mia idea di rivoluzione sotto il vessillo imperiale erano estremamente vicine”; Furubayashi T., Kobayashi H., cit., pag.46
[27] J. Baudrillard, cit., pag. 56
[28] J. Baudrillard, cit., pag. 60
[29] cfr. M. Vegetti, Filosofia antica, in AA.VV., Filosofie e società, Zanichelli, Bologna, 1992, pag. 310: “C’è una formula stoica che esprime in tutta la sua nettezza la disposizione interna cui si tratta di pervenire: si tratta di ‘volere ciò che accade’ (compresi eventi come la nostra morte)”
[30] cfr. Mishima Y., cit., pag. 38. Come spiega Mishima, la parola Hagakure vuol dire letteralmente ‘nascosto tra le foglie’, ma nel corso degli anni si è innescata una querelle filologica circa il significato autentico da attribuire ad essa, senza peraltro raggiungere delle conclusioni soddisfacenti. Tra le tante ipotesi possibili, c’è anche quella secondo cui tale vocabolo evocherebbe l’atmosfera di una poesia (che vale la pena menzionare) di Saigyō, monaco – poeta vissuto nel XII secolo: Nei pochi fiori che ancora indugiano, / nascosti tra le foglie, / mi par di sentire / la presenza di colei / per la quale in segreto languisco. Cfr. Mishima Y., cit., pagg. 63 - 64
[31] Mishima Y., cit., pag. 110
[32] cfr. P. Veyne, cit., pag. 47
[33] G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 1984, pag. 134
[34] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 151
[35] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 134
[36] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 134
[37] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 144
[38] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 135.
[39] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 137
[40] La frase di Bousquet è riportata da Deleuze in Logica del senso, cit., pag. 135
[41] cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino, 2002, pagg. 154 – 165 e G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino, 1986, pagg. 87 - 94
[42] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 295
[43] G. Deleuze, C. Carnet, cit., pag. 76
[44] G. Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata, 2000, pag. 190
[45] G. Deleuze, Pourparler, cit., pag. 190
[46] G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., pag. 160
[47] G. Deleuze, Pourparler, cit., pag. 187
[48] G. Deleuze, Pourparler, cit., pag. 188
[49] G. Deleuze, Pourparler, cit., pag. 188
[50] G. Deleuze, Pourparler, cit., pag. 188. « Per Duns Scoto…ogni cosa di cui si possa dire hic, haec, hoc è tale in virtù della sua haecceitas, ove l’haecceitas dei singoli elementi che concorrono a formare un tutto…non sacrifica l’unità sostanziale del tutto”, L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. I, Garzanti, Milano, 1977, pag. 465
[51] G. Deleuze, Pourparler, cit., pagg. 211 - 212
[52] G. Deleuze, Pourparler, cit., pag. 19
[53] cfr. M. Perniola, La società dei simulacri, Cappelli, Bologna, 1983, pagg. 169 - 170
[54] G. Debord, Avvertenza,in La società dello spettacolo, cit., pag. 33
[55] G. Deleuze, Pensiero nomade, in Nietzsche e la filosofia, cit., pag. 322
[56] G. Debord, Avvertenza, cit., pag. 32
[57] G. Debord, Panegirico, Castelvecchi, Roma, 1996, pag. 38
[58] G. Debord, In girum imus nocte..., cit., pag. 9
[59] M. Perniola, Disgusti, Costa &Nolan, Milano, 1998, pag. 166
[60] G.Debord, In girum imus nocte…, cit., pag. 64
[61] G. Debord. In girum imus nocte..., cit., pag. 62
[62] G. Debord. Panegirico, cit., pag. 20
[63] M. Perniola, Disgusti, cit., pag. 156
[64] G. Debord, Panegirico, cit., pag. 19
[65] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 144
[66] G. Debord, Panegirico, cit., pag. 29
[67] G. Debord, Panegirico, cit., pag. 30
[68] G. Debord, Panegirico, cit., pag. 30
[69] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 141
[70] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pag. 142
[71] G. Debord, Panegirico, cit., pag. 32
[72] M. Perniola, Disgusti, cit., pag. 167
[73] G. Debord, Panegirico, cit., pag. 20
[74] G. Debord, In girum imus nocte…, cit., pag. 72
[75] Furubayashi T., Kobayashi H., cit., pag. 17
[76] S. Givone, Introduzione a Nietzsche, Verità e menzogna e altri scritti giovanili, Newton, Roma, 1995, pag. 26
[77] cfr. G. Vattimo, Metafisica, violenza, secolarizzazione, in Filosofia ’86, a cura dello stesso Vattimo, Laterza, 1987, pagg. 71 -75
[78] cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1981
[79] G. Debord, La società dello spettacolo, cit., pag. 53
[80] cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 1979, pagg. 185 - 210. Secondo Heidegger, la metafisica occidentale è caratterizzata dall’oblio dell’’oblio dell’essere’, da cui deriva la confusione dell’essere stesso con la ‘semplice presenza’, lungo un itinerario filosofico che si snoda da Platone a Nietzsche

mercoledì 30 maggio 2007

IL VANGELO SECONDO GLI ALLOCCHI



Dice un noto proverbio che “le mamme degli imbecilli sono sempre incinte”; nulla di più vero se solo si presta attenzione alle discussioni convulse (e semiserie) che occupano i giornali e le televisioni dopo la trasposizione cinematografica del best seller di Dan Brown “Il codice da Vinci”:da una parte un sottoproletariato culturale che ignorava l’esistenza dei vangeli gnostici e che adesso si eccita all’idea di un Salvatore dedito ad un improbabile commercio erotico con Maria Maddalena, dall’altra una chiesa sempre più in difficoltà a stare al passo con i tempi di un compiuto nichilismo in cui i credenti non sanno più che farsene delle prediche domenicali. Intendiamoci: la questione è molto meno insidiosa di quanto si voglia far credere, ma il melodramma agli italiani piace (non siamo, forse, la terra del sangue di san Gennaro e delle madonne che piangono?); perché non accontentarli? Tanto più che, un colpo al cerchio ed uno alla botte, ci guadagnano tutti: Dan Brown ed i produttori del film si trovano tra le mani una formidabile ed inaspettata campagna pubblicitaria; la chiesa può recitare ancora una volta (speriamo l’ultima) la parte di chi detiene un sapere esoterico (nel momento stesso della sua sconfitta definitiva dopo la riproduzione della vita in vitro) che attraversa intatto i secoli e le conferisce il più alto magistero nei confronti degli allocchi. Gli allocchi, appunto; quelli che non sanno (beati i poveri in spirito!) che di finzione si tratta:romanzesca e cinematografica nel caso del “Codice da Vinci”(in cui, peraltro, si confondono i manoscritti del Mar Morto con quelli di Nag Hammadi); con pretese di verità metafisica in quello della chiesa, che trasforma la finzione in impostura di basso profilo. Parafrasando Heidegger, si potrebbe dire che soltanto un demonio ci può salvare. La lezione è terminata, andate in pace.


Bruno Bonansea
Saluzzo, 28 Maggio 2006

martedì 29 maggio 2007

SCIENZA, DEMOCRAZIA E FONDAMENTALISMO: E’ LEGITTIMA L’EPOCA MODERNA?[1]
Esistono validi motivi per ritenere che la favola più celebre della modernità,[2]quella che racconta la nascita del metodo scientifico in Occidente, sia completamente da riscrivere. Non si tratterebbe, infatti, dello scontro tra uno scienziato puro e disinteressato, desideroso solamente di far conoscere la superiorità scientifica del copernicanesimo, e l’ottusa arroganza del Sant’Uffizio romano, ma di un vero e proprio “affare di stato”[3]sorto intorno al più importante fra i sacramenti della religione cristiana: l’eucaristia.[4] Del resto, avverte Redondi, è solo la nostra leggerezza di “moderni bigotti scientifici” che ci impedisce di guardare “nel cuore della fede della controriforma e, insieme, della rivoluzione scientifica”;[5] così come ci impedisce di cogliere il “fondamentalismo biblico”[6] del padre della scienza moderna. Fuorviante, dunque, l’immagine di Galileo quale eroe “dell’ontologia orientata sull’immanenza, scientificamente fondata, che ha totalmente, irrimediabilmente sostituito quella biblico-cristiana”[7]forgiata da Lukács, come quella popperiana che vede nel pisano l’incarnazione del dissenso e dell’anticonformismo,[8]un’anticipazone di Popper stesso, insomma. Come ha notato Marcello Cini, “ogni religione ha bisogno di un Fondatore… la scienza non fa eccezione alla regola… chi non ha imparato a scuola che alternando ‘sensate esperienze’ e ‘certe dimostrazioni’ Galileo ha sgominato il dogmatismo degli aristotelici e aperto la via alla marcia trionfante del progresso scientifico? Come alcune altre cose che si imparano a scuola, anche questa è una bugia”[9]. Ma qual è la verità, allora, intorno a questo “ciarlatano… molto più interessante del misurato ‘ricercatore della verità’ che di solito ci viene additato come esempio da riverire”?[10] Paul Feyerabend ha svecchiato il ritratto tradizionale di Galileo cucendogli addosso i panni dell’”anarchico epistemologico” dedito all’uso di “scampoli di ragionamento in modo impudentemente propagandistico”[11]e a “trucchi psicologici” per oscurare “il fatto che l’esperienza su cui… vuol fondare la concezione copernicana non è altro che il risultato della sua fertile immaginazione, che è un’esperienza inventata”.[12] Secondo Feyerabend, Galileo, paradossalmente, “inventa un’esperienza che contiene ingredienti metafisici. Proprio per mezzo di una tale esperienza si realizza la transizione da una cosmologia geostatica al punto di vista di Copernico e di Keplero”.[13] Propagandista metafisico di Copernico, ingannatore ed anarchico epistemologico, il Galileo di Feyerabend esce dai canoni dell’agiografia scientifica ma non per questo è meno affascinante, anzi: “Procedendo in questo modo egli esibì uno stile, un sense of humor, un’elasticità ed eleganza e una consapevolezza della preziosa debolezza del pensiero umano, che non è mai stata eguagliata nella storia della scienza”.[14] L’importante, per Feyerabend, è ribadire che la scienza è un fenomeno umano, troppo umano, un gioco linguistico, per dirla con Wittgenstein, tra gli altri, basato su mosse affatto irrazionali ed imprevedibili: “Il copernicanesimo e altre concezioni ‘razionali’ esistono oggi solo perché in qualche periodo del loro passato la ragione fu sopraffatta”;[15] viene in mente Nietzsche: “Tutte le cose che vivono a lungo, si impregnano gradualmente di ragione, a tal punto che la loro provenienza dall’irrazionale diventa perciò improbabile. Non risultano quasi tutte paradossali ed empie, per il sentimento, le storie precise di una genesi? In fondo il buono storico non contraddice continuamente?”[16]. E perché la storia precisa della genesi del metodo scientifico non dovrebbe risultare paradossale ed empia per il nostro sentimento? La verità è che la ragione è venuta al mondo in modo irrazionale[17] e “gli scienziati solo molto raramente sanno cosa fanno”,[18] ma non ci piace ammetterlo. “Con questo il razionalismo scientifico non viene escluso una volta per tutte dalla nostra considerazione. E’ una delle favole che ci raccontiamo per poter sopportare temporaneamente l’assurdità che ci circonda. E’ come le storie di case calde, ricchi pasti, belle donne, che i cacciatori smarriti nella selva inventano al fuoco del bivacco. Ma sarebbe fatale se le ritenessero vere anche una volta spento il fuoco”[19]. Ciò che è essenziale ai fini del nostro discorso, nelle tesi di Feyerabend, è che il razionalismo “non è altro che una forma secolarizzata della fede nella potenza della parola di Dio”[20]. Il che non vuol dire altro se non che il razionalismo, lungi dall’essere fondato su sè stesso, trae alimento da fonti religiose, come ha mostrato magistralmente Max Weber[21]. Anche Marcello Cini, sulla scia delle idee di Feyerabend, ha ricostruito le vicende della nascita della scienza moderna e del suo fondatore in modo originale ed insolito. Si tratta, per Cini, di scrivere un’altra storia di quegli eventi, che tenga conto delle ragioni degli sconfitti: “Ciò che caratterizza la storia scritta dai vincitori e la distingue in negativo dalla critica storica è proprio l’attribuzione del carattere di necessità a tutto ciò che è accaduto. La concezione tradizionale fa proprio questo: identifica la scienza quale essa è oggi come l’unica scienza che avremmo potuto avere. E’ un errore epistemologico grave”[22]. Quanto allo scontro tra Galileo ed Aristotele, contrariamente a quanto racconta la vulgata ufficiale, può essere compreso “soltanto se lo si considera come uno scontro fra due modi altrettanto legittimi di osservare la natura, ognuno dei quali ha come conseguenza l’elaborazione di un proprio sistema coerente ed empiricamente adeguato di conoscenze”[23]. Del resto, Galileo negava anche l’evidenza pur di affermare le proprie convinzioni, come nel caso della polemica con padre Grassi riguardo le comete, in cui apertamente fece carte false[24]o, ancora, con la teoria delle maree che lo condusse “a intestardirsi per trent’anni su una spiegazione... che è al tempo stesso teoreticamente scorretta e in flagrante disaccordo con l’esperienza”[25]. Bisogna dunque ammettere che i motivi che hanno opposto Galileo e gli aristotelici sono molto più complessi di quanto si creda solitamente e riconoscere che si è trattato “di un controversia, nella quale ogni contendente, contrapponendo argomenti di tutti i tipi, utilizzando ugualmente le armi della logica e della retorica, ha fatto il possibile per conquistare il pubblico alla propria tesi e screditate l’avversario”[26]. Abbiamo ridisegnato, fin qui, il profilo di Galileo sottolineando alcuni aspetti della sua personalità solitamente trascurati. Abbiamo, però, lasciato in ombra la questione del processo a Galileo, rimasta avvolta nel mistero per tanto tempo e decisiva, come ha mostrato Pietro Redondi, per la piena comprensione della complessa questione dell’avvento della scienza moderna in Occidente. Tutto si poteva supporre, riguardo all’”affaire” Galileo, tranne che si trattasse di una controversia teologica, come ha mostrato in via ipotetica Pietro Ridondi e come è stato confermato dalla recente scoperta di un documento, archiviato in seguito al parere decisivo del cardinale Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII, in cui si accusava l’astronomo pisano di mettere in dubbio l’eucaristia[27]. Secondo la dettagliata ricostruzione di Redondi, l’accusa ufficiale di apologia di copernicanesimo rivolta a Galileo sarebbe un’abile manovra orchestrata dallo stesso Urbano VIII per nascondere una realtà assai più compromettente per lo scienziato e per lo stesso papa. Il vero oggetto del contendere tra Galileo ed il Sant’Uffizio non sarebbero state, infatti, le idee astronomiche del pisano, bensì le sue convinzioni in fisica della materia, che richiamavano direttamente il materialismo atomistico di Democrito, espresse ne “Il Saggiatore” (1623). Né si dimentichi che il libro venne dedicato proprio a Urbano VIII, che mostrò di apprezzare il gesto chiamando “dilettissimo figlio” l’amico Galileo, mettendo così a repentaglio la sua stessa credibilità se fosse andato in porto il progetto gesuitico di incriminare Galileo per eresia. Lo scienziato, del resto, dopo gli ammonimenti ricevuti nel 1616 dal cardinale Bellarmino in persona che gli comunicò la condanna e la prossima messa all’Indice di Copernico, si guardò bene dallo sfidare il Sant’Uffizio. Fu soprattutto su insistenza degli amici dell’Accademia dei Lincei che Galileo si decise ad intervenire nel dibattito sulla natura delle comete, dando vita a quella vera e propria opera buffa ai danni di padre Orazio Grassi che è “Il Saggiatore”. E padre Grassi, si sa, difettava di senso dello humor;[28] così scattò la denuncia[29]. Poi, dal suo punto di vista, padre Grassi aveva ragione: “ Il dogma eucaristico era il fondamento, il postulato essenziale della fede cattolica”,[30] e se la teoria atomistica di Democrito ripescata da Galileo lo metteva in forse, bisognava combatterla con ogni mezzo. Ma veniamo al cuore della questione tracciando brevemente la storia della parola transustanziazione. Il termine apparve tardi, nel secolo XI, e venne imposto come dottrina canonica solo due secoli dopo, anche se divenne presto dogma ufficioso “ per virtù linguistica di un termine sfuggente a qualsiasi presa intuitiva e razionale e quindi ideale per designare un mistero”.[31] Il dogma della transustanziazione sollevava due ordini di problemi, relativi alla trasformazione delle sostanze ( il pane ed il vino ) e alla permanenza dei dati sensibili originari. La prima questione impegnò per secoli domenicani e francescani, la seconda coinvolse direttamente le teorie gnoseologiche e le filosofie della natura fino all’alba della modernità.[32] Un posto a parte nella storia di questo dibattito spetta ad Occam, elemento di spicco di quella tradizione “ che aveva fatto del privilegio dell’esperienza una causa comune, come dell’avversione alla supremazia politica del papato un ideale spirituale”.[33]Antiaristotelico per vocazione, Occam riprese l’atomismo democriteo, come tre secoli dopo di lui avrebbe fatto Galileo, quale filosofia più adatta a spiegare le apparenze delle diversità qualitative e delle mutazioni naturali.[34] Contro Occam si aprì un’istruttoria che non condusse, stranamente, ad una condanna ufficiale della sua dottrina.[35] Diversa sorte toccò a Galileo: “ Occam aveva osato. Tre secoli dopo di lui anche Galileo osò, ma in condizioni certo più difficili, perché adesso c’era un dogma ufficiale, il dogma tridentino per eccellenza”,[36]dopo che il concilio aveva riaffermato vigorosamente l’idea di transustanziazione. In seguito al nuovo clima politico e culturale venutosi a creare con l’inasprirsi della guerra dei trent’anni, un libro come “ Il Saggiatore” che metteva in discussione, anche solo indirettamente, il dogma della transustanziazione, diventava indifendibile. E così il suo autore. Anche la conduzione politica della chiesa sotto il pontificato di UrbanoVIII venne stigmatizzata pesantemente dall’ala più intransigente del potere ecclesiastico, tanto che lo stesso “ papa dovette affrontare la aperta denuncia del cardinale Borgia, protettore della Spagna”.[37] Ciò non impedì che Galileo godesse di un trattamento speciale: “ La causa, fin dal primo momento, venne sottratta alla competenza giurisdizionale del Sant’Uffizio e venne condotta dai due più autorevoli amici di Galileo in curia: il papa, che non vuol apparire, e il cardinale Francesco Barberini”.[38] La commissione speciale voluta dal papa e presieduta dal nipote cardinale Barberini “ fornì al tribunale del Sant’Uffizio un’istruttoria perfettamente confezionata per un rapido processo contro Galileo sulla base di un’accusa ben circoscritta: la violazione, nel Dialogo, del divieto comminato nel 1616 a Galileo dal cardinale Bellarmino di difendere la teoria copernicana condannata dal Sant’Uffizio”.[39] Galileo doveva, dunque, essere incriminato per disobbedienza all’autorità ecclesiastica e non certamente per eresia. L’atteggiamento dello scienziato durante il processo appare, come è noto, incomprensibile: alla prima udienza si difese con le unghie e con i denti; nella successiva udienza “ si produsse in una clamorosa autoaccusa copernicana, perfino troppo clamorosa”.[40] Tutto è bene ciò che finisce bene: “ soddisfatti i protettori di Galileo, soddisfatto il decoro formale del rito giudiziario e messi a tacere i devoti, soddisfatto anche l’imputato, che avrà il minimo della pena”.[41] Si chiudeva in questo modo la vicenda storica del processo a Galileo e si apriva la lunga stagione, destinata a sopravvivere fino ai nostri giorni, del mito della nascita del metodo scientifico. Come si è visto, il caso Galileo è paradigmatico nel senso dell’intreccio indissolubile tra scienza e religione, tra ragione e questioni teologiche, cioè a dire è un esempio tipico di quel fenomeno della secolarizzazione che è a fondamento della modernità in Occidente. La questione della secolarizzazione, si può dunque dire, concerne direttamente, per riprendere il titolo della nostra riflessione, la stessa “ legittimità del mondo moderno , nella fase in cui questo si libera , o crede di liberarsi , dal peso della tradizione religiosa”.[42] E proprio la teoria della secolarizzazione, così come viene pensata da Weber e da Löwith, fa emergere il fondo religioso da cui trae forza il volto laico e razionalistico dell’Occidente, sia quando si presenta, nella sua versione gnoseologica, come tradizione scientifica sia quando indossa l’abito della tolleranza politica, nella sua veste democratica. Si deve a Max Weber la messa in luce dell’affinità elettiva tra “ascesi intramondana” del calvinismo e “spirito capitalistico”, ossia tra fondamentalismo religioso e moderna economia capitalistica, traduciamo noi; per cui “ l’individuaismo moderno appare come il prodotto estremo di uno sviluppo religioso”.[43] Nell’ottica di Weber, la modernità occidentale è, dunque, il prodotto di un lungo processo di trasformazione che ha la sua origine nella religione, e che quindi non può autolegittimarsi. Il che corrobora la nostra tesi secondo cui la modernità occidentale è una variante del fondamentalismo religioso che ha dimenticato le sue origini. Analogamente e in sintonia con il maestro, Löwith ha rielaborato “ la ricostruzione weberiana della storia del razionalismo in una teoria autonoma della secolarizzazione”,[44] che ha messo a nudo i “presupposti teologici della fede laica nel progresso”[45] così come ha riconosciuto che “ il nostro mondo moderno è mondano ed irreligioso e tuttavia dipendente dal credo cristiano da cui si è emancipato”.[46] Il nucleo centrale del lavoro di Löwith mira ad esplicitare i presupposti teologici della filosofia della storia, ma finisce per svolgere una critica che investe l’intera cultura occidentale intesa “ come un grandioso détour , giunto alla sua conclusione con le filosofie nichilistiche”.[47] E se, seguendo la prospettiva di Löwith, la filosofia della storia rifiutando la sua origine teologica diventa peggiore della teologia, allo stesso modo la democrazia moderna rifiutando la sua origine religiosa ( fondamentalista ) diventa peggiore del fondamentalismo. E ciò proprio alla luce del tragico conflitto in corso che la vulgata ufficiale presenta come uno scontro tra democrazia e fondamentalismo. Se solo gettiamo un rapido sguardo sulla formazione storica della democrazia moderna, vediamo nuovamente confermata la tesi della secolarizzazione:sia la prima rivoluzione inglese sia la rivoluzione di indipendenza americana furono guidate dai puritani, trassero cioè impulso da quel fondamentalismo biblico che abbiamo incontrato in Galileo come nelle espressioni più tipiche della modernità occidentale nelle analisi di Weber e di Löwith. Il cerchio a questo punto si chiude: alla domanda che apriva il nostro scritto dobbiamo rispondere negativamente; l’epoca moderna, come si è venuta delineando attraverso l’indagine che abbiamo condotto di alcuni suoi momenti significativi, è ben lungi dall’essersi svincolata dal mondo religioso che l’ha prodotta. Ne è, anzi, il prolungamento inconsapevole e pericoloso che più che con i tratti del figlio illegittimo[48]appare come un aborto involontario.
Bruno Bonansea
Saluzzo, Aprile 2003



[1] Cfr. il dibattito su legittimità del moderno e secolarizzazione in aut aut n° 222, 1987, con scritti di Löwith, Blumenberg e Carchia.
[2] Cfr. P. K. Feyerabend, Contro il metodo, Feltrinelli, Milano, 1995, pagg. 240-252.
[3] P. Redondi, Galileo eretico, Einaudi, Torino, 1983, pag. 413.
[4] P. Redondi, cit., pag. 262.
[5] P. Redondi, cit., pag. 418.
[6] P. Redondi, cit., pag. 15.
[7] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, vol. I, Editori Riuniti, Roma, 1976, pag. 106.
[8] Cfr. G. Giorello, Scienza, liberalismo, democrazia:conflitto o armonia?, Scuola di liberalismo online, 20/4/1998. pagg. 1-2.
[9] M. Cini, Trentatré variazioni su un tema, Editori Riuniti, Roma, 1990, pagg. 41-42-43.
[10] P. K. Feyerabend, cit., pag. 89, nota 22.
[11] P. K. Feyerabend, cit., pag. 160.
[12] P. K. Feyerabend, cit., pag. 68.
[13] P. K. Feyerabend, cit., pag. 77.
[14] P. K. Feyerabend, cit., pag. 132.
[15] P. K. Feyerabend, cit., pag.126.
[16] F. Nietzsche, Aurora, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1981, pag. 13.
[17] F. Nietzsche. cit., pag. 91.
[18] P. K. Feyerabend, L’irrazionalità ovvero: chi ha paura dell’uomo nero?, aut aut. n° 205, 1986, pag. 84.
[19] P. K. Feyerabend, L’irrazionalità..., cit., pag. 86.
[20] P. K. Feyerabend, La scienza in una società libera, Feltrinelli, Milano, 1980, pag. 41. In questo caso, per la verità, Feyerabend non fa altro che radicalizzare la tesi di Karl Popper sulla “metafisica influente”: la metafisica “è la fonte da cui rampollano le teorie delle scienze empiriche” ( K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 1970, pag. 348).
[21] Cfr. Alessandro Dal Lago, Il nuovo politeismo, in Filosofia ’86, a cura di Gianni Vattimo, Laterza, Bari, 1987, pag. 141.
[22] M. Cini, Un paradiso perduto, Feltrinelli, Milano, 1994, pag. 10.
[23] M. Cini, Un paradiso perduto, cit., pag. 20.
[24] Cfr. M. Cini, Un paradiso perduto, cit., pag 21.
[25] M. Cini, Un paradiso perduto, cit., pag.21.
[26] M. Cini, Un paradiso perduto, cit., pagg. 21-22.
[27] Cfr. sul Corriere della sera del 22 marzo 2001, l’articolo di Cesare Meda Galileo mise in dubbio l’eucaristia. Ma la chiesa lasciò correre.
[28] Cfr. P. Redondi, cit., pag. 228.
[29] Cfr. P. Redondi, cit., pag. 238.
[30] P. Redondi, cit., pag. 246.
[31] P. Redondi, cit., pag. 262.
[32] Cfr. P. Redondi, cit., pag. 263.
[33] P. Redondi, cit., pag. 270.
[34] Cfr. P. Redondi, cit., pag. 271.
[35] Cfr. P. Redondi, cit., pag. 272.
[36] P. Redondi, cit., pag. 283.
[37] P. Redondi, cit., pag. 291.
[38] P. Redondi, cit., pag. 307.
[39] P. Redondi, cit., pag. 311.
[40] P. Redondi, cit., pag. 327.
[41] P. Redondi, cit., pag. 327.
[42] A. Dal Lago, cit., pag. 133.
[43] A. Dal Lago, cit., pag. 140.
[44] A. Dal Lago, cit., pag. 144.
[45] K. Löwith, Significato e fine della storia, Il Saggiatore, Milano, 1998, pag. 22.
[46] K. Löwith, cit. pag. 229.
[47] A. Dal Lago, cit., pag. 146.
[48] Cfr. K. Löwith, Recensione del libro di Hans Blumenberg “Die legitimität der neuzeit”, in aut aut n° 222, cit., pag. 66: “I parti della vita storica sono tutti ’ illegittimi ‘ ”.
Navigo, dunque esisto: riflessioni su filosofia, letteratura e globalizzazione
Per le ostriche l’argomento più interessante deve essere quello che
tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le
stacca dallo scoglio
( Giovanni Verga )
Non esistono dei punti di vista sulle cose, perché le cose sono dei
punti di vista
( Gilles Deleuze )

A conclusione di un bel libro che studia il rapporto tra filosofia e cognitivismo[1], Diego Marconi traccia un bilancio della sua indagine ed attribuisce al cognitivismo il merito di aver (ri)affermato, al di là delle varianti culturali, la costante umana degli stessi processi cognitivi di base: “L’universalità dei modelli dei processi cognitivi portava con sé la ricostituzione della natura umana”[2]. In altri termini , i risultati raggiunti dai cognitivisti fornirebbero una base scientifica alle differenti forme di universalismo, dal trascendenatale kantiano allo strutturalismo ed al generativismo, presenti a vario titolo nella nostra cultura. Anzi, secondo Marconi spetterebbe proprio alla scienza cognitiva prospettare la soluzione dell’opposizione natura/cultura a suo tempo denunciata da Michel Foucault: “Una vera ricomposizione dell’uomo biologico e dell’uomo culturale sarà possibile solo se i processi cognitivi potranno essere compresi a partire dal funzionamento del cervello. Solo a questo punto si potrà fondatamente parlare di comprensione scientifica della natura umana”[3]. Nel frattempo le perplessità di Foucault restano attuali, ed anche le nostre. Foucault ebbe modo, a suo tempo, di contestare a Chomsky l’esistenza degli universali linguistici, ribadendo la natura specifica ed implicita nel potere di essi, da studiarsi storicamente[4]. Polemica, questa di Foucault contro Chomsky, di non poco conto; tanto più se si considera che le conclusioni di Marconi finiscono per apparire come una apologia implicita della globalizzazione. In quanto, da un punto di vista filosofico, il concetto di globalizzazione risulta essere un equivalente dell’idea di universalismo o di astrazione, che è la stessa cosa. A rigore, quindi, il dibattito sulla globalizzazione (o sull’esistenza degli universali) dovrebbe essere riportato alla disputa medioevale tra nominalisti, realisti e concettualisti che impegnò personalità della levatura di Roscellino, Guglielmo di Champeaux ed Abelardo: “Gli studiosi dell’XI secolo, lo trovano esposto nella traduzione di Boezio della Isagogé di Porfirio; ma questo testo si limita a enunciare il problema”, che può essere formulato nel modo seguente: “Dobbiamo riconoscere che la vera realtà è costituita proprio dai concetti universali… o ammettere invece che è costituita dai singoli esseri individuali che cadono sotto di essi?… Le soluzioni estreme del problema degli universali sono: quella nominalistica di Roscellino… e quella realistica di Guglielmo di Champeaux… La prima, sententia vocum, sostiene che tutta la realtà è costituita da individui, mentre gli universali non sarebbero che puri nomi (flatus vocis); la seconda, sententia rerum, sostiene invece che la realtà è proprio costituita dagli universali, mentre gli individui non sarebbero altro che mere particolarizzazioni contingenti della medesima sostanza”[5]. Posta in questi termini la questione, Roscellino diventa un avversario della globalizzazione e Guglielmo di Champeaux un suo sostenitore, ed il tutto acquista un sapore ‘teologico’ apparentemente estraneo alle inquietudini che agitano la nostra attualità. Ma non dobbiamo dimenticare che il termine ‘cattolico’ significa letteralmente ‘universale’ e che di tale attributo si fregiò la chiesa cristiana fin dalla seconda metà del II secolo, benché non si trovasse traccia di universalismo in Gesù: “Se si leggono i vangeli facendo astrazione dall’interpretazione che ne farà la tradizione cristiana, il dubbio non è possibile: non c’è universalismo in Gesù… Non era né universalista né nazionalista cosciente: il dilemma non era alla sua portata… Non poteva prevedere ciò che la chiesa gli avrebbe fatto dire un giorno”[6]; e la globalizzazione da parte della chiesa non si è certo arrestata; i gesuiti e gli altri ordini missionari, si sono impegnati “a procacciare successi per la conquista spirituale e ad allargare a tutti i continenti un Commonwealth romano sotto l’egida del papa”[7]. Come si vede, la questione degli universali si rivela determinante ai fini di una corretta comprensione del fenomeno della globalizzazione, che deve essere ricondotto, oltre che al dibattito medioevale testè accennato, anche all’antica metafisica greca ed all’idea parmenidea della sfericità dell’Essere: “La seconda globalizzazione … implica la scoperta della rotondità della terra fin da quando, con Magellano, le navi andando sempre nella stessa direzione finivano per fare ritorno in Europa… La prima è stata quella metafisica dell’antichità , che si è tradotta in una cosmologia filosofica”[8]. Il che conferma le tesi di Sohn-Rethel circa l’intima connessione tra denaro e pensiero astratto all’origine della filosofia greca: “Ciò che vi è di specificamente umano in noi trova la sua prima manifestazione oggettiva, separata ed oggettivamente reale, nella storia, nelle forme espressive della seconda natura in quanto denaro… Fu Parmenide il primo che con il suo concetto ontologico dell’Essere trovò un concetto adeguato per questo elemento dell’astrazione reale… un’assolutizzazione ontologica della natura materiale del denaro in essa identificata”[9]; cioè a dire che il pensiero astratto dell’Essere è nato in concomitanza e per analogia con la coniazione della moneta, autentica “origine storica del pensiero concettuale in generale”[10]; il ‘miracolo greco’ viene così riportato alle sue origini empiriche, umane troppo umane: “Il denaro è sempre strettamente connesso con un materiale che ha valore d’uso, un metallo nobile è sicuramente un bene di consumo; giungiamo quindi alla pura astrazione-scambio solo se insistiamo sul risarcimento del logorio della moneta. Abbiamo così una sostanza ben strana che non è naturale e non è visibile, che si è imposta a Parmenide”[11], l’Essere. La centralità dell’idea dell’Essere per la comprensione dello sviluppo dell’astrazione in occidente e del processo di globalizzazione , è ribadita anche da Paul Feyerabend: “Non è benvenuto il tentativo di trasformare parole e concetti che mediano tra le persone in mostri platonici che le ricostruiscono a loro immagine… Non è benvenuta un’universalità che è imposta, tramite l’educazione, i giochi di potere o le necessità dello ‘sviluppo’, la più sottile delle forme di conquista”[12]. E se la scienza, per ipotesi, venisse accettata universalmente? “Ciò sarebbe un accidente storico, non una dimostrazione dell’adeguatezza degli universali platonici”[13]. Nella prospettiva di Feyerabend, le astrazioni che sono a fondamento della filosofia occidentale nascono sia (nietzscheanamente) da una negazione della vita sia da un’incoerenza logica che si ritrovano a livello pratico nel farsi concreto della globalizzazione; così come “l’antica negazione e l’inversione di valori in essa implicita… hanno influenzato la civiltà occidentale e attraverso di essa il mondo intero”[14], allo stesso modo, “stili di vita antichi vengono distrutti e sostituiti da fabbriche, autostrade e monoculture che trasformano i principi degli esperti (economisti, agronomi, ingegneri, ecc.) basati sulla scienza in tiranni, senza prestare attenzione ai desideri e ai valori locali”[15]. Date queste premesse, forse il gesto delittuoso di Platone che si decise “ad uccidere ‘nostro padre’ Parmenide”[16]non era poi così sconsiderato. Ma la lista degli universalisti illustri risulterebbe incompleta se trascurassimo di inserire in essa il fondatore dell’antropologia strutturale: Lévi-Strauss. Il quale ha incarnato il tentativo forse più radicale, rinvenibile nella cultura del novecento, di spiegare il comportamento umano in base ad alcune costanti universali inconsce, denominate appunto strutture. Come è stato opportunamente notato[17], tale tentativo finisce per trasformarsi in una metafisica non dissimile da quelle sostenute dai teologi medioevali: “Lévi-Strauss… parla di condizioni metastoriche e metasocietarie. Quelle che egli addita sono delle radici archetipe di ogni attività strutturante”[18]. In questo modo si cancella il risultato più importante ottenuto dagli studi antropologici, la messa in crisi del modello etnocentrico: “Con l’operazione di Lévi-Strauss si richia un ritorno occulto all’etnocentrismo”[19]; e la tentazione etnocentrica sembra proprio essere il pericolo più grave connaturato ad ogni forma di universalismo. In ogni caso, dal punto di vista squisitamente gnoseologico, il discredito della storia a tutto vantaggio delle strutture non resta senza conseguenze in Lévi-Strauss. Si prenda il caso arcinoto del tabù dell’incesto, paradigmatico, secondo Lévi-Strauss, dell’antinomia natura/cultura e del suo superamento: “Per il suo carattere di universalità la proibizione dell’incesto concerne la natura, e cioè la biologia e la psicologia, oppure l’una e l’altra insieme; ma non per questo è meno vero che esso, in quanto regola, costituisce un fenomeno sociale, appartenente all’universo delle regole, ossi della cultura, ed è dunque di competenza della sociologia… La proibizione dell’incesto… costituisce… il passo fondamentale grazie al quale, per il quale, e soprattutto nel quale, si compie il passaggio dalla natura alla cultura”[20]. Appartenente alla natura data la sua universalità e nondimeno culturale per il suo carattere normativo, il tabù dell’incesto rappresenta una vera e propria sfida per l’antropologo: “Il problema dell’incesto ci si è venuto proponendo in legame con quello della relazione tra l’esistenza biologica e l’esistenza sociale dell’uomo, ed abbiamo dovuto constatare che la proibizione dell’incesto non appartiene esclusivamente né all’una né all’altra: il nostro lavoro si propone appunto di fornire la soluzione di questa anomalia, dimostrando che la proibizione dell’incesto costituisce proprio il legame che unisce l’una sfera all’altra”[21]. Ebbene, agli occhi dello storico la situazione si presenta in maniera decisamente meno drammatica e così si dissipa quell’alone di mistero che offuscava la vista dell’antropologo: “Poiché l’intensità di questa proibizione nulla ha di una legge di natura né di un fondamento assoluto , essa è un fatto umano e assai empirico: sotto forma di formulazioni perentorie, l’intensità reale dell’interdetto varia molto da una società all’altra, dunque non basta studiare quali rapporti di parentela sono proibiti: bisogna anche prendere in considerazione il grado di intensità della proibizione… Si può supporre che l’orrore sacro dell’incesto si sia affermato nel corso degli ultimi secoli dell’impero”[22]. Che cosa bisogna concluderne? “In breve, bisogna farsi , sia delle repressioni che delle proibizioni, un’idea sfumata. Le proibizioni alimentari, per esempio, divengono viscerali: se un etnologo, per dovere scientifico si mette a mangiare bruchi, egli, martire della scienza avrà la nausea. Le cose vanno diversamente per le proibizioni sessuali (omofilia, incesto con la sorella): si è persuasi che si proverebbe nausea ma di fatto non la si prova. Per una buona ragione…Le specie che si sono forse distinte all’interno della vita amorosa non corrispondono affatto alla differenza dei sessi e la sfiorano soltanto”[23]. Come si vede, a volte la storia può offrire una via d’uscita a problemi che per lo strutturalismo si configurano come una sorta di nuova antinomia di Russel, con tutte le conseguenze del caso[24]. Giunti a questo punto è facile constatare come esistano buone ragioni, da un punto di vista logico, per argomentare a favore o contro l’universalismo e la globalizzazione e che seguendo questa strada si finirebbe inevitabilmente in uno di quei problemi che gli scolastici medioevali denominavano insolubilia. Al che noi preferiamo riprendere a modo nostro l’argomento del pari di Pascal[25], riformulato così: posto che esistano le stesse possibilità di dimostrare la verità degli universali e della globalizzazione come il suo contrario, noi scommettiamo sulla seconda opportunità; la posta in gioco non sarà più l’infinito ma la stessa sopravvivenza della specie umana. Possiamo solo augurarci che abbia ragione Sloterdijk: “Forse la globalizzazione, come la storia in genere, è un crimine che può essere commesso soltanto una volta”[26]. Ma se è vero (e noi ne siamo fermamente convinti) quanto abbiamo sostenuto fin qui, quale senso può avere, se non quello di corroborare un assurdo pregiudizio etno-eurocentrico, auspicare la fantomatica “ricostituzione della natura umana”[27]? Noi abbiamo deciso di credere a Paul Veyne, secondo cui: “L’idea della natura umana resta tanto inafferrabile quanto inutilizzabile”[28], constatazione che costringe ad alcune evidenze non sempre edificanti: “Siamo noi a costruire le nostre verità e non è ‘la’ realtà che ci porta a credere. Poiché essa è figlia dell’immaginazione costituente della nostra tribù… Il mito della scienza ci impressiona; ma non confondiamo la scienza con la sua scolastica, la scienza non scopre verità , cui possa dare una sistemazione matematica o una formalizzazione; essa scopre fatti sconosciuti che si possono commentare in mille modi … Le scienze non sono più rigorose delle lettere”[29]. Una volta assodato che il trascendentale si costituisce storicamente, bisogna trarne tutte le conseguenze , tra cui la più importante è che ciò esclude che esso sia partecipato dall’universalità[30]. Questo programma minimo di sobrio nichilismo implica che “dobbiamo cancellare tutto ciò che ci tiene impegnati da qualche decennio: scienze umane, marxismo, sociologia della conoscenza”[31]ed ogni forma di universalismo, aggiungiamo noi. Può apparire paradossale, ma l’etologia giunge a conclusioni non tanto diverse: “Le regole di vita, e in particolare quelle sociali, delle altre specie sono scritte nei loro geni, mentre quelle della specie umana sono scritte nella cultura”[32], e la cultura, si sa, varia. Ma per dirla ancora con Veyne: “E’ necessario ricordare per l’ennesima volta che nella nostra testa non c’è nulla e che le mentalità non sono che un nome diverso per i comportamenti?”[33]. Bene, questo per quanto riguarda la filosofia, in senso lato, nei suoi rapporti con la globalizzazione; e la letteratura? Peter Sloterdijk è sicuro che anche essa abbia a che fare con il mondo globalizzato e che il suo eroe si chiami Jules Verne[34]. Noi siamo più propensi a pensare che il primo grande scrittore e critico ante litteram della globalizzazione sia stato Giovanni Verga. Sia in alcune novelle[35] sia nei grandi romanzi[36], lo scrittore catanese ha tracciato un quadro icastico degli effetti devastanti di quella che Sloterdijk chiama ‘seconda globalizzazione’, dando voce alle vittime del progresso, il cui cammino appare grandioso soltanto se visto di lontano: “Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha diritto di interessarsi ai deboli che restano per la via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani”[37]. L’approccio di Verga alla materia narrata è di tipo antropologico, ed è questo il senso della sua adesione alla teoria naturalistica dell’impersonalità dell’arte; si tratta cioè di restituire ai protagonisti delle novelle e dei romanzi la loro psicologia ed il loro linguaggio, di adottare un’ottica straniata rispetto alla realtà che si vuole rappresentare; per questo la Sicilia si vede meglio se guardata da Milano: “Non ti pare che per noi l’aspetto di certe cose non ha risalto che visto sotto un dato angolo visuale? E che mai riusciremo ad essere tanto schiettamente ed efficacemente veri che allorquando facciamo un lavoro di ricostruzione intellettuale e sostituiamo la nostra mente ai nostri occhi?”[38]. Tale approccio è confermato, se ce ne fosse bisogno, dalla novella La coda del diavolo, vero e proprio resoconto etnografico in cui si illustra l’usanza della ‘ntuppatedda: “A Catania la Quaresima vien senza Carnevale; ma in compenso c’è la festa di sant’Agata, -gran veglione di cui tutta la città è il teatro- nel quale le signore, ed anche le pedine, hanno il diritto di mascherarsi, sotto il pretesto d’intrigare amici, i conoscenti e d’andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che il marito abbia il diritto di metterci la punta del naso: Questo si chiama il diritto di ‘ntuppatedda, diritto il quale, checchè ne dicano i cronisti, dovette esserci lasciato dai saraceni, a giudicarne dal gran valore che ha per la donna dell’harem”[39]. L’ottica straniata, del resto, guida la stesura della novella Fantasticheria, che contiene in nuce i motivi che informeranno I Malavoglia, dalla “religione della famiglia” alla valorizzazione della tradizione, sintetizzati nell’”ideale dell’ostrica”: “Proprio l’ideale dell’ostrica, e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non essere nati ostriche anche noi”[40]. Ne I Malavoglia questo ideale è incarnato dal patriarca padron ‘Ntoni che, indifferente al progresso, conosce la vera saggezza della vita: “Sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi, ‘perché il motto degli antichi mai mentì’”[41]. Questa saggezza insegna che non bisogna muoversi mai e che quelli che non ci credono sono destinati a finire male, come il nipote più grande di padron ‘Ntoni, ‘Ntoni anch’egli di nome, ma così diverso dal nonno, al punto che al ritorno dalla città e dal contatto con il progresso non venne riconosciuto né dal cane né dal fratello Alessi, “tanto era mutato”[42]. E se Magellano, il capitano Cook e i navigatori “che si davano al commercio delle spezie dall’estremo oriente. Sono loro i veri inventori della globalizzazione”[43], se, insomma, “globale fa rima con navale”, allora il naufragio della ‘Provvidenza’ narrato nel capitolo III de I Malavoglia[44]si carica di un significato allegorico estremamente eloquente: se, parafrasando Descartes, il moderno mondo globalizzato ai suoi albori può essere efficacemente sintetizzato nella formula “navigo, dunque esisto”, il suo destino, ci dice Verga, è quello di colare a picco. Lo scrittore catanese conclude il suo ritratto della globalizzazione dipingendo la figura di Gesualdo Motta, che passerà da mastro a don sacrificando gli affetti sull’altare dei valori economici per finire solo come un cane, tormentato, anche in punto di morte, dal pensiero della ‘roba’: “Gli vennero … delle ondate di amarezza e di passione, quei sospetti odiosi che dei bricconi, nelle questioni d’interessi, avevano cercato di mettergli in capo”[45]. Nel passaggio da I Malavoglia a Mastro-don Gesualdo, vengono meno anche i valori della famiglia e della tradizione, come già in Mazzarò, potente anticipazione di Gesualdo Motta: “Di donne non ne aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto”[46]; e di nuovo, la figura di Mazzarò appare come una straordinaria allegoria dell’avidità che caratterizza il processo della globalizzazione: “Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la Terra, e che gli si camminasse sulla pancia”[47]. E non manca, anche in questo caso, il finale tragico: “Sicchè quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba , per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: roba mia, vientene con me!”[48].
In principio era la globalizzazione; certo, almeno da un punto di vista eurocentrico che guarda con soddisfazione alla realizzazione di un processo che ha ai suoi estremi la speculazione filosofica sull’Essere da una parte e la “circolazione istantanea delle informazioni nell’etere elettronico”[49]dall’altra, dimentico del fatto che il concetto di globalizzazione “è un vangelo dell’inclusione nello stile di vita occidentale: La totalità della popolazione terrestre si divide tragicamente in due gruppi: da una parte , coloro che sono materialmente ricchi, protettti e favoriti giuridicamente; dall’altra, la grande maggioranza che non potrà mai far parte dell’’umanità’. Ci troviamo di fronte a un tragico paradosso, ad una forma di esplosione che dà tanto nell’occhio proprio perché noi parliamo una lingua dell’inclusione”[50].

Bruno Bonansea
Saluzzo, gennaio 2004





[1] D. Marconi, Filosofia e scienza cognitiva, Laterza, Bari, 2001
[2] D. Marconi, cit. pagg. 132-133
[3] D. Marconi, cit., pag. 134
[4] cfr. J. Rajchman, Michel Foucault La libertà della filosofia, Armando, Roma, 1987, pag. 79
[5] L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. I, Garzanti, Milano, 1977, pagg. 421-422
[6] P. Veyne, Il pane e il circo, Il Mulino, Bologna, 1984, pagg. 35-36
[7] P. Sloterdijk, L’ultima sfera, Carocci, Roma, 2002, pagg. 144-145
[8] P. Sloterdijk, Se globale fa rima con navale, ReS online, 6/11/2002, pag. 1
[9] A. Sohn-Rethel, Il denaro l’apriori in contanti, Editori riuniti, Roma, 1991, pagg. 31-35
[10] A. Sohn-Rethel, Il denaro l’apriori in contanti, cit. pag.37
[11] A. Sohn-Rethel, Il denaro l’apriori in contanti, cit. pag. 114
[12] P. Feyerabend, Conquista dell’abbondanza, Raffaello Cortina, Milano, 2001, pagg. 323-324
[13] P. Feyerabend, Conquista dell’abbondanza, cit., pag. 324
[14] P. Feyerabend, Conquista dell’abbondanza, cit., pag. 19
[15] P. Feyerabend, Conquista dell’abbondanza, cit., pag. 321
[16] P. Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti?, IL Mulino, Bologna, 1984, pag. 92
[17] cfr. U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano, 1985, pag. 285 e segg.
[18] U. Eco, La struttura assente, cit., pag. 297
[19] U. Eco, La struttura assente. cit., pag. 299
[20] C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano, 2003, pagg. 60-67
[21] C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, cit., pag.67
[22] P. Veyne, La società romana, Laterza, Bari, 1990, pag. 177
[23] P. Veyne, La società romana, Laterza, Bari, 1990, pag. 181
[24] Per una esposizione chiara dell’antinomia di Russel e delle sue conseguenze dal punto di vista logico, cfr. M. Di Francesco, Introduzione a Russel, Laterza, Bari, 1990, pagg. 50-55. Sarebbe interessante ‘tradurre’ l’antinomia di Lévi-Strauss nel linguaggio logicista russelliano.
[25] B. Pascal, Pensieri, Einaudi, Torino, 1967, pagg. 65-71
[26] P. Sloterdijk, L’ultima sfera, cit., pag. 129
[27] cfr. D. Marconi, Filosofia e scienza cognitiva, cit., pag. 133
[28] P. Veyne, Il pane e il circo, cit. pag., 31
[29] P. Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti?, cit., pagg. 153-155
[30] P. Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti?, cit., pag. 160
[31] P. Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti?, cit., pag. 163
[32] D. Mainardi, L’animale irrazionale, Mondatori, Milano, 2001, pag. 124
[33] P. Veyne, Come si scrive la storia, Laterza, Bari, 1973, pag. 334
[34] cfr. P. Sloterdijk, L’ultima sfera, cit., pagg. 37-40
[35] G. Verga, Tutte le novelle, Mondadori, Milano, 1979
[36] G. Verga, I Malavoglia Mastro-don Gesualdo, Newton, Milano, 1984
[37] G. Verga, Prefazione a I Malavoglia, cit., pag. 22
[38] G. Verga, Lettera a Capuana, in G. Verga, Tutte le novelle, cit., pag. IX
[39] G. Verga, La coda del diavolo, in G. Verga, Tutte le novelle, cit. pag. 50
[40] G. Verga, Fantasticheria, in G. Verga. Tutte le novelle, cit., pag. 135
[41] G. Verga, I Malavoglia, cit., pag. 24
[42] G. Verga, I Malavoglia, cit., pag. 216
[43] P. Sloterdijk, Se globale fa rima con navale, cit., pag. 2
[44] cfr. G. Verga, I Malavoglia, cit., pagg. 42-46
[45] G. Verga, Mastro-don Gesualdo, cit., pag. 490
[46] G. Verga, La roba, in G. Verga, Tutte le novelle, cit., pag. 281
[47] G. Verga, La roba, in G. Verga, Tutte le novelle, cit., pag. 280
[48] G. Verga, La roba, in G. Verga, Tutte le novelle, cit., pag. 285
[49] P. Sloterdijk, Se globale fa rima con navale, cit., pag. 2
[50] P. Sloterdijk, Se globale fa rima con navale, cit., pag. 3